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In morte del console onorario

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Questo pezzo è uscito su Il Foglio. (Immagine: una scena del film Il console onorario di John Mackenzie)

D’ambasciatori celebri son piene la storia e la letteratura; e di consoli, anche, illustri e letterari: Nathaniel Hawthorne a Liverpool; Stendhal a Civitavecchia, James Fenimore Cooper a Lione; di consoli onorari meno, poiché meno prestigiosi, perché il rango è quello infimo della diplomazia, come codificato dalla Convenzione di Vienna del 1963. Emissari low cost, scelti tra emigrati che ce l’hanno fatta, dunque mercanti arrivati, senza stipendio, senza marsina, immunità se non quella misera dell’archivio (ma cosa mai dovranno archiviare?).

Eppure, che fascino esotico per questa carica: tutta colpa di Graham Greene, e del suo romanzo del 1953 poi portato al cinema da un film di categoria esotica con Michael Caine e Richard Gere?

È morto a fine febbraio Marco Vancini, console onorario d’Italia a Malindi, in quella strana località arcitaliana, via di fuga per italiani dropout con maglioncino sulle spalle. E “Ways of Escape” è anche una raccolta di reportage di Greene, che in Kenya venne a raccontare la rivolta dei Mau Mau; ma il suo “Console onorario” era poi ambientato in Sudamerica. E non aveva l’aplomb britannico di Caine, Vancini, piuttosto la vitalità da bell’uomo in fuga di Gere. Aveva sessant’anni, il capello argenteo, lo sguardo inquieto, il demone muliebre, quella “virtù dell’infedeltà” che Greene rivendicava per sé stesso.  Il console onorario d’Italia è morto su un modesto fuoristrada lanciato a centocinquanta all’ora in uno strano frontale contro un camion, un mattino. La notizia non ha preso che poche righe sui quotidiani nazionali italiani, mentre in quella strana bolla di expat che è Malindi ha provocato strazi e retropensieri. Gli italiani piangono e discutono il loro console onorario. Piangono e discutono una morte che pare un suicidio, e se suicidio è, va detto, è dei più discreti, suicidio da gran signore pragmatico e silenzioso quale era il Vancini; un incidente è un incidente, come sa chi abbia frequentato (chi non lo ha fatto), in qualche momento, l’ipotesi d’andarsene senza lasciar sensi di colpa, lasciando a chi resta solo la scelta di cosa pensare.

Non aveva cinture di sicurezza né airbag, il Vancini, sullo stradone che da Malindi porta alla capitale Mombasa, in prossimità del bivio per Watamu. E già dal mezzo di trasporto iniziano le stranezze di questa morte consolare; perché il Vancini amava le belle macchine e i mezzi di trasporto non minimalisti: a Milano (era milanese) appariva ai creditori e finanziatori (era mercante, imprenditore) con una Rolls Royce bianco latte. Ma erano altri tempi, anni del grande successo come immobiliarista a Malindi, e con appartamento di rappresentanza in Galleria Vittorio Emanuele. Oppure appariva su una Harley, con la quale batteva personalmente la Macroregione portando ai creditori e finanziatori rotoli di banconote con cui saldava con percentuali del sette per cento cash. Ecco soprattutto perché era stato un tempo eroe kenyota e ultimamente eroe triste il Vancini: da decenni garantiva rendimenti robusti su investimenti esentasse per lombardi affluenti che approfittavano di un posto al sole lontano da Entrate, Equitalia, Imu e Tasi. Ma anche dai prezzi della Sardegna. Un interesse del sette per cento e signorilità a manciate, ville con tetto in makuti, quello conico di paglia che prende fuoco con niente, e tanta servitù, al prezzo di un monolocale in Brianza.

Era arrivato negli anni Settanta a Malindi, il Vancini, impiegato e poi animatore in un hotel a trazione bergamasca. Poi aveva scalato e edificato, aveva costruito i villaggi più immaginifici della cittadina. Aveva acquistato il Kiwulini Resort e poi quello più elegante, il Lawford, un vecchio avamposto inglese, dove ancor oggi al bar ci sono i grandi orologi con lancette ferme sulle cinque, perché gli antichi ufficiali britannici di stanza a Malindi non potevano cominciare a bere prima di quell’ora.

Ma il suo quartier generale era sulla Silver Sand, la spiaggia che in realtà pare più dorata che argentea. Il Coral Key, albergone-villaggio candido per affluenti lombardi che fino a pochi mesi fa arrivavano in regime di soft o full all-inclusive, oggi è sbarrato, i portici bianchi tra Messico e Costa Smeralda costruiti con tanta sabbia e poco cemento, per risparmiare, perdono pezzi di intonaco che cascano nelle piscine blu enormi piene di cloro. Gli houseboy hanno smesso di deporre sui candidi copriletti degli ospiti, sotto le zanzariere, le composizioni tradizionali di benvenuto, fatte di palme e fiori e frutti, segnali di benvenuto arcimboldesco per portatori di euro.

È affacciato sulla spiaggia più malinconica d’Italia, il Coral Key, villaggio di lussi crepuscolari; i nostri Caraibi in provincia di Brescia. La spiaggia, popolata dai beach boys, ragazzi che offrono manufatti, souvenir, gite, servizi vari, tutto in italiano anzi in dialetto: sanno soprattutto il bolognese, il bergamasco e il bresciano. Hanno nomi per far ridere italiani dal cuore semplice: si chiamano: “Albero di Natale”; “Francesco Totti”; “Barcaiolo”; ti chiedono il tuo, di nome, e poi ti propongono: un safari Masai Mara; una gita su isolotti che compaiono solo con la bassa marea, luoghi chiamati “Sardegna 2”, per far sentire a casa il turista di Busto Arsizio, perché il turismo non è altro che l’avventura organizzata, il caos addomesticato.

Il caos ha preso d’un tratto la vita del console d’Italia: la crisi, crisi europea ed esogena, la fine di cumenda e padroni e padroncini pronti ad affidare cifre anche importanti all’edificator gentile della costa kenyota. Prendeva in prestito, costruiva, garantiva ritorni ormai da sogno nell’Europa dei tassi a zero; offriva rifugi dalle nebbie padane. L’inizio della scalata era stato balzachiano e rombante: con la moglie aveva costruito, cementificato, urbanizzato, in quella Cinisello sur Mer popolata di tuc tuc (le apette-risciò) e con quel caratteristico microclima di gas di scarico, copertoni bruciati e salsedine oceanica.

Ultimamente aveva una nuova compagna, e una figlia adorante che adorava, il console onorario. Ma la crisi, come si dice, si avvitava: sempre meno turisti, anche per rapimenti e minacce terroristiche in crescita. L’impossibilità di pagare creditori e finanziatori, ansiosi del loro sette per cento netto anche in tempi di magra. Fallimento: fine dunque del console palazzinaro, palazzinaro gentile, anche oggi che finanziatori e creditori pur preoccupati di “rientrare”, non riescono a trovare parole cattive per chi gli ha dato una “sòla” anche milionaria. E tutti presenti al funerale, nella chiesa di Sant’Antonio a Malindi, come si vuole gremita, tra l’ambasciatore d’Italia, questa sì una feluca importante, e il governatore locale, e un’Ave Maria e i canti swahili, e tutti i dipendenti del Coral, e poi un ometto piccolo – narrano le cronache locali – un anziano giriama, la tribù kenyota tra le più antiche, col vestito della festa; era un falegname che molto aveva operato per il Vancini.

Perché fino a pochi mesi fa, il console d’Italia vegliava sulla piccola comunità del Coral, per offrire Africa e mistero calmierati agli italiani, euro e dollari ai locali: robusti guardiani di sera spuntavano a vigilare con grossi bastoni, che la linea d’Ombra dall’Oceano e dal Caos non sconfinasse nel comfort brianzolo. Qui, non solo turisti, ma molti che avevano comprato appartamenti e ville e multiproprietà. Imprenditori e professionisti in cerca di clima caldo e secco per cuori, arterie, reumi; e rendimenti esentasse, fughe da mogli o mariti, risparmi sul riscaldamento o sul tedio. Signore in chemisier e brillanti, gare di beneficenza al meritevole orfanotrofio locale. Partite di bridge, acquisti di pesce lamentandosi che è diventato sempre più caro. Nori Corbucci, l’ex deputato Pci Colajanni, Gino Paoli, si aggiravano; un elegante avvocato bresciano sosia di Philip Roth, una ereditiera del tondino con marito self made man rustico, famoso per certi tomi di filosofia orientale letti allo Yachting (la parte più prestigiosa del Coral), per darsi un tono; e domestiche di casati lombardi molto liquidi che venivano molto riverite, dando party separati nei propri alloggi considerati assai più chic di quelli dei padroni.

Su questa piccola umanità il Vancini regnava senza immunità, come da Convenzione di Vienna; silenzioso, elegante, molto diverso antropologicamente dal vicino e amico Briatore, vegliava sui suoi ospiti-esiliati che qui vivevano anche sei mesi al l’anno, coi mali di vivere lasciati all’aeroporto di Mombasa (il piccolo aeroporto di Malindi è chiuso da anni ai voli commerciali, ci atterra solo Berlusconi col suo Gulfstream, sempre più di rado). Un’atmosfera tra Piero Chiara e Amici miei, però africana: per ingannare la noia, zingarate, pettegolezzi, sciarade: industriali che per scherzo minacciano di far rinchiudere l’amico cumenda in carcere per una notte (basta pagare 500 euro alla polizia locale, approfittando di un sistema statuale molto elastico e disintermediatore). E anche i casi più epici locali, Claudio Martelli e Edoardo Agnelli, arrestati e sputtanati per sostanze, qui venivano sbrigati con una alzata di sopracciglio: pare che non avessero capito la fluidità del sistema, coi ragazzi della spiaggia che offrono, e il poliziotto dietro le canne pronto a richiedere l’obolo. Non s’era compresa la filiera, a chilometri zero. Pare si fosse finiti invece nel più increscioso e inopinato “lei non sa chi sono io” e “chiamate la mia ambasciata”.

Ai tempi d’oro, Edoardo Agnelli beveva i suoi gin tonic al bancone del White Elephant, hotel confinante col Coral. Il Vancini si trovava invece in uno dei due bar del suo feudo, quello più discreto, prima di cena, in conversazione con bellezze lombarde o emiliane, mentre i baristi versavano alcolici col tot-measure, eredità britannica, il misurino metallico a clessidra. La cena era annunciata da un jingle che appariva malinconico nel disperato tentativo di essere giovane. Dalle casse sotto i makuti arrivava un riff artigianale: “e siamo tutti qui/ al Coral Key” faceva questa musica incisa da chissà chi, sulle note del più celebre Ymca dei Village People, e il contrasto con la strofa originale “It’s fun to stay at the Ymca”, “è divertente stare al Ymca”, e l’attacco, “Young Man!”, con allusioni ad allegre scorribande in alloggi adolescenziali, sembrava un’esortazione patetica, tra questi maglioncini sulle spalle da Cocoon sull’Oceano, e tante famiglie. A cena, Vancini poi non si vedeva spesso, forse scomparendo per alcune delle sue missioni romantiche; c’era un protocollo preciso, anche, si favoleggiava: la prescelta del momento veniva invitata sul suo aeroplanino, il famoso Cessna bianco monomotore pilotato da un arabo silente; e portata in gita al parco nazionale dello Tsavo, un’ora di volo da Malindi. Mentre l’arabo pilotava, Vancini eseguiva il suo rituale d’amore aeronautico. Per le più fortunate, poi, c’era anche un invito transfrontaliero, mesi dopo, all’appartamento in Galleria, a Milano. Ma la doppietta tra il Kenya e l’Area C era riservata soltanto alle più ambite (e le altre si offendevano molto).

Tutto questo prima che l’appartamento, così come la Rolls Royce e l’aereo, se ne andassero, con la crisi, e con l’arrivo dei debiti insolubili.

Si ricorderanno i decolli e gli atterraggi, del Vancini, un romanticismo aviatorio, con questo monoplano del tutto simile a quello della Mia Africa (la baronessa Blixen visse, amò e intraprese non lontano da qui). Ma senza il tema struggente del film, la musica strappacuore di John Barry. Altre musiche ugualmente struggenti sono state composte proprio al Coral Key: “In Africa”, pezzo di Memo Remigi, grande amico del Vancini che prese le sue difese quando nel 2012 improbabili ambientalisti kenyoti accusarono il non ancora console d’essere “un palazzinaro”, come se si potesse essere qualcosa d’altro a queste latitudini. Remigi, già autore di “Innamorarsi a Milano”, prese pubblicamente le difese dell’amico e ospite. Ma Malindi ha ispirato anche cantautori dei più impegnati: Roberto Vecchioni, che aveva casa da queste parti (poi acquistata da Giovanna Melandri, kenyota riluttante) compose un intero album, Rotary Club Malindi: (“Ma quando all’ora del gabbiano tutto se ne va/ e nel silenzio si addormenta il sole/ ti prende in fondo una tristezza che non sai”). 

Non solo padroni e padroncini tipo Cgia di Mestre, dunque, alla corte del Vancini, ma anche società civili in trasferta: Pietro Calabrese, scomparso direttore del Messaggero, affezionato dei luoghi, nel suo memoir triste “L’albero della vita” ricordò un capodanno al Coral Key nel bungalow dei Colajanni, presenti Riccardo Manfredi, uno dei proprietari dell’Ultima Spiaggia di Capalbio; e poi Chicco Testa, e Armando Tanzini, scultore e proprietario del White Elephant; tutti insieme all’amico Vancini. E il Coral Key, per qualche strano cortocircuito tropicale, diventava così anche una Capalbio africana: coi gestori dell’Ultima spiaggia a rifugiarsi qui, per mesi, dopo le fatiche maremmane. Tutti insieme, cumenda e intellettuali e ex butteri e ex parlamentari Pci, andavano poi a bere il caffè italiano al Karen Blixen, bar-ristorante con maxischermo tv per partite e sceneggiati Rai in una piazzetta circolare simil Porto Rotondo o Milano Tre, con portici.

Ma la crisi, che è arrivata a Malindi da anni, e che ha ucciso il suo console, aveva già dato dei segnali. Qualche anno fa, in tanti al Karen Blixen già prendevano in affitto la Gazzetta o il Corriere della Sera per mezzora, al costo di cinquanta scellini, invece dei trecentocinquanta necessari per l’acquisto. Piccole economie, piccoli cedimenti, come quelli degli intonaci bianchi del Coral Key che lentamente si sfaldavano e non venivano rinfrescati. Nessuno però avrebbe previsto il fallimento dell’impero vanciniano. Tantomeno la morte violenta. Se scompariva, il Vancini, lo si sarebbe visto planare in volo sul suo Cessna, o ricomparire a Milano in Rolls Royce. In fondo, anche la baronessa Blixen era andata fallita con la sua piantagione di caffè, aveva sbaraccato dal Kenya ed era tornata a casa. Il console onorario d’Italia invece non ha potuto: o non ha voluto.


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